Nell’eterno carnevale del Brasile di Amado anche la cucina di dona Flor, pudica e sensuale, è traboccante di vita.
“Perché si deve sempre aver bisogno di due amori, perché uno non basta a riempire il cuore?”.
Dai mari di un altro Sud, mia madre mi risponde:
˂˂Il peccato di gola non sfiora dona Flor. Il suo rapporto col cibo non è la crapula e il pensiero fisso e l’ingordigia che nell’inferno dantesco viene punito con l’immersione e l’ingozzamento nella broda di fango.
Per dona Flor la cucina è vita come è giusto che sia. Con i modesti proventi dell’arte si mantiene in vita, con l’allegria che promana dalle forme e dai colori dei suoi dolci, con i profumi e gli aromi di un mondo speziato che non può che essere al Sud, al sole e al caldo, la donna è la vedova che si consola e riempie il suo vuoto d’amore sensuale e profondo, come la natura sa dettare, quando le si abbandoni senza sofisticherie di pensiero.
La dolcezza del palato favorisce il sogno e con esso la magia: due vite parallele sono così possibili e la vita è benedetta. “Questa” gola… “nun è peccato” >>.
E se lo dice la mamma…
Gola. Peccato di corpo. Porta di tutti i vizi.
Vedi alla voce Adamo, che poi aveva assaggiato solo un po’ di frutta.
Per evitare il peccato di gola, dicevano i monaci medievali, il cibo va assunto con lo spirito con cui prendiamo le medicine. Allegria!
E non andava nemmeno bene pensare al cibo. Anche il solo parlarne apriva la porta alla libidine. Per questo nel pranzo di Babette la comunità luterana della Blixen si impegna a mantenere il silenzio sulle pietanze che vanno mangiando. Per questo la regola monastica prescrive la lettura a voce alta delle sacre scritture nei refettori durante la consumazione dei pasti.
Gola. Peccato di eccesso, in faccia alla fame. Peccato di classe.
Oggi, sfiniti da ricette, ingredienti, impiattamenti e cucine da incubo, siamo di nuovo convinti che mangiar troppo non è cosa buona e giusta. Ma la salute che ci sta a cuore non è quella dell’anima e l’equilibrio che ricerchiamo non è quello redistributivo.
Ormai il peccato più riprovevole è quello che commettiamo contro il nostro corpo e coloro che non lo curano o tonificano a dovere diventano i rejetti della società. Umiliati e obesi, direbbe Fjodor.
Nell’antropologia dell’uomo a dieta, centrifughe, digiuni, palestre, drenaggi, crudismi e tisane sono tutte mortificazioni celebrate sull’altare dello specchio, rigorosamente fuori da ogni orizzonte spirituale e invece tutte interne a una spirale di autoaffermazione, di auto-scultura e, per i tatuati, di auto-pittura.
Tra nuovi interdetti e laici tabù, gli uomini e le donne contemporanei si definiscono in negativo per ciò che non mangiano, per le sostanze da cui non vogliono essere attraversati: vegetariani, vegani, astemi, celiaci, intolleranti al latte, alle uova, ai polifosfati. Intolleranti e basta.